Il teatro della dissolvenza

"La precedente paura di essere guardati si è oggi trasformata nella paura che nessuno stia guardando.”

Questa citazione è tratta dal libro "Il teatro della dissolvenza"  il quale analizza le opere più significative di Diller e Scofidio, facendoci comprendere il loro più profondo significato.

Elizabeth Diller, nata nel 1954, si forma all’università di New York, la Cooper Union, quando Ricardo Scofidio, nato nel 1935, vi insegnava già dalla metà degli anni ’60. 

Nel 1979 a New York creano uno studio interdisciplinare che accoglie varie forme d'arte, tra cui architettura, nuovi media, spettacolo e performance. Questa visione di lavoro li guiderà verso ricerche significative volte a esplorare le connessioni sociali e politiche tra il corpo umano e lo spazio pubblico. Si focalizzeranno sul passaggio dall'organico all'inorganico e dall'oggettività a una nuova soggettività. Punteranno al superamento del rapporto diretto tra organo spaziale e la sua funzione spostando l'attenzione verso i luoghi di transito, considerando la soggettività dei desideri rispetto all'oggettività dei bisogni.

Nel 1981 Diller e Scofidio progettano la Plywood House.

"Il corpo racchiude la mente in un processo discontinuo, così questa casa si mostra in un rapporto scollegato e discontinuo tra l'interno e l'esterno."

Un parallelepipedo con tetto a due falde, concepito come una successione di lastre forate da passaggi e rimontate. La struttura abitativa è caratterizzata dalla disposizione ritmica delle finestre. Con uno spessore murario di otto pollici (misura corrispondente alla distanza tra la superficie degli occhi e la parte posteriore del cervello), questa residenza presenta un rapporto discontinuo tra spazio interno ed esterno (non comunicano più), in cui la disposizione delle finestre non segue la logica funzionale. In questo modo, evidenzia i limiti della cultura post-moderna, in una ricerca apparente di pelle per rimettere tutto in discussione all'interno. Ma la pelle non è nient'altro che un limite, una frontiera.

Nel 1989 realizzano un’istallazione nella Projects Room del MoMA di New York: Para-site


Il tema fondamentale di questa installazione ruota attorno al museo che ospita l'esposizione: l'installazione funge da parassita, vivendo in un luogo specifico in relazione all'organismo che lo ospita. In questo contesto, il parassita è rappresentato dall'installazione in quanto essa irrompe nel contesto istituzionale del museo. Pertanto, D+S hanno scelto di enfatizzare  il tema dell'osservazione, dove i visitatori osservano e, contemporaneamente, sono sorvegliati: macchine di monitoraggio evidenziano le strutture di controllo e sicurezza del museo. Gli architetti si interrogano sulla domesticità inserendo nell'installazione oggetto d'uso quotidiano ma collocati su piani non utilizzabili e entrando così in conflitto con lo spazio dell'abitare. 

Nel 1991, presso il Walker Art Center di Minneapolis, realizzano un'installazione per focalizzare l'attenzione sui processi convenzionali associati al viaggio turistico: "Tourisms: SuitCase Studies"

Da sempre, l'itinerario dell'artista, dello scrittore e del poeta si orienta verso territori incontaminati, alla ricerca del significato nascosto delle cose. La velocità dei moderni spostamenti ha portato a una perdita dei valori legati al territorio. Nella cultura turistica americana, il passato autentico diventa una sorta di finzione teatrale che combina mito, ritualità ed eventi storici manipolati per catturare l'immaginazione popolare. L'installazione di Diller e Scofidio si muove su queste premesse, con cinquanta valigie identiche che trasportano i contenuti della mostra, ciascuna rappresentando una specifica attrazione turistica dei cinquanta stati degli Stati Uniti. Gli schermi visualizzano immagini di mappe, disegni, modelli, testi filosofici e cartoline. Gli architetti, attraverso questi mezzi, trasportano la mente del visitatore in un ambiente profondamente concettuale, mettendo in discussione il mito dell'autenticità. 

Sempre nel 1991 D+S progettano la Slow House, una casa vacanze per un mercante d’arte giapponese, che non verrà mai realizzata.

La Slow House si concentrava sul tema della visualità, incarnato dall'idea di "una porta che conduce ad una finestra che racchiude una vista". La casa cattura due simboli della società capitalista: l'automobile, intesa come fuga dalla città verso la casa vacanza, e la televisione, trasformata in uno schermo video che, posizionato di fronte all'unica finestra della casa, compone e decompone l'immagine esterna dell'oceano. La dimora subisce l'impatto del rallentamento del viaggio; osservare lo spazio attraverso il parabrezza dell'automobile offre una visione del mondo esterno distorta. La casa risente di questa alterazione nelle sue percezioni ottiche e prospettiche. Lo schermo che interferisce con la finestra trasmette la realtà in tempo reale tramite la videocamera esterna oppure immagini in differita nei giorni meteorologicamente instabili. La finestra, posta strategicamente, media la visione diretta del mondo, non mostra più il fuori dal dentro ma lo stesso interno.

Nel 1993 i due architetti realizzano l'installazione Bad Press che poi sarà esposta nella sesta mostra internazionale di architettura alla Biennale di Venezia.

Il modello standardizzato della stiratura disciplina sempre la camicia in una forma piatta e rettangolare che soddisfa economicamente i sistemi ortogonali di immagazzinamento. Cosa succederebbe se la stiratura potesse liberarsi del tutto dall'estetica dell'efficienza? Abbiamo sviluppato modelli di stiratura che producessero camicie che non potessero essere impacchettate e messe l'una sopra l'altra."

Le camicie rivelano il sistema delle convenzioni a cui siamo sottoposti, che come una camicia di forza ci imprigiona. D+S fanno notare che l'attributo che meglio identifica la piega è la mutabilità. "Se qualcosa può essere piegato può anche essere spiegato e ripiegato. La piega è suscettibile di essere dimenticata, implica una reversibilità."

Nel 1996 i due architetti curano lo spettacolo teatrale Moving Target.

Progettano un piano inclinato di 45° che corrisponde a uno specchio capace di rovesciare la realtà, sfidando il senso della gravità fisica e gli assi verticale e orizzontale. In aggiunta, tramite un computer collegato allo specchio, riescono a creare uno spazio ibrido: il computer visualizza campi di forze che i ballerini preregistrati segnano sulla scena e li fonde con le figure riflesse, consentendo alla macchina di mostrare allo spettatore qualcosa al di là di ciò che normalmente potrebbe percepire: lo spazio nascosto, virtuale, oltre la scena. Lo specchio proietta virtualmente spazio reale e video installazioni in tempo mediato. Vogliono destabilizzare l'occhio passivo e coinvolgere l'occhio della mente e inoltre rompere la convenzionale struttura teatrale mono-focale.

Dopo aver dedicato notevole attenzione al tema dei sistemi di sorveglianza mediatica invasivi (come evidenziato nell'installazione "Master/Slave" del 1999 presso la Fondazione Cartier di Parigi), Diller e Scofidio intraprendono un lungo percorso di esplorazione del display. Inizialmente, gli schermi fungevano da monitor a circuito chiuso, ma con l'avvento del digitale e la trasformazione del monitor in un'interfaccia di computer, il loro ruolo diventa sempre più predominante, modificando i messaggi stessi.

Nel 1993, desiderando rendere visibili le tecnologie del desiderio e i rituali dell'acquisto e della vendita, concepiscono "Soft Sell", un'installazione in cui due labbra giganti femminili trasmettevano messaggi seducenti e persuasivi ai passanti. In questo modo, cercano di interpretare la cultura dei monitor e della pubblicità.

Nel 1995, al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, presentano "Indigestion".

Una scena conviviale si materializza su uno schermo orizzontale, simile a un tavolo. Un touchscreen adiacente offre l'opportunità di sostituire i personaggi con una varietà di stereotipi legati al genere e alla classe sociale. A seconda dei personaggi selezionati, vengono associati specifici tipi di cibo. La narrazione rimane costante durante ogni cambio, ma si sfuma in modo dinamico in base alle differenze tra i personaggi. 

Nel 2000 D+S riprogettano la Brasserie: lo spazio sotterraneo del Seagram Building a New York di Mies van der Rohe. 

I due architetti hanno scelto di reinterpretare lo spazio originario rispettando le sue partiture e allineamenti, proponendo un ristorante/installazione che si configura come un'isola all'interno del contesto razionalista. Nonostante l'assenza di una connessione diretta tra la strada e l'interno (dato che ci troviamo in un ambiente sotterraneo), questa connessione è creata in modo elettronico: una microcamera, rivolta verso la strada, funge da finestra virtuale, mentre una seconda videocamera, attivata dall'arrivo dei clienti, trasmette l'entrata su un monitor posizionato sopra il bar. Il cliente è supervisionato con occhio divertente dai clienti che stanno all'interno, è come se il cliente entrasse in uno spazio teatrale. La Brasserie mira a instaurare un'interazione visiva, tattile e percettiva con il cliente. 

Nel 2001 viene bandito il concorso per il nuovo Istituto d'Arte Contemporanea a Boston

Diller e Scofidio propongono un edificio che trasforma il waterfront: il museo si manifesta come un'immagine virtuale che evoca intense sensazioni attraverso la presenza di un oggetto distinto che emerge dal vuoto. Lo spazio è concepito come una passeggiata pubblica che si snoda verso una scala-tribuna con vista sul porto. Il piano della mediateca è inclinato di 30° e forato in modo tale da creare una superficie completamente vetrata che si estende oltre la struttura in aggetto per incorniciare la vista dell'acqua. Grazie alle nuove tecnologie, il vetro può apparire traslucido o opaco in base alle esigenze sceniche. 

Gli architetti vincono il concorso per l'Eyebeam di New York.

Gli architetti hanno pensato a un sistema articolato di connessioni: un nastro che funge da interfaccia per acquisire e trasmettere informazioni. Questo nastro si muove in modo sinuoso attraverso l'edificio, ascendendo verticalmente dalla strada. Nel suo percorso, il pavimento si trasforma in parete, successivamente in pavimento e di nuovo in parete... L'approccio scelto è quello di creare uno spazio continuo mediante un nastro che si piega durante la salita verticale, raggiungendo infine la realizzazione di 12 piani. Il nastro non si ricollega, è sempre presente una dimensione inqualificabile. Il museo è pensato in funzione dei nuovi paradigmi elettronici (interattività, fluidità, informazione).

Infine D+S progettano il paglione della Svizzera per l’Expo 2002, Blur.

“Era un edificio dalla visione ostacolata. Era un edificio che non rappresentava niente, ma era un niente spettacolare.” 


Il padiglione è costruito con una struttura in acciaio sostenuta da quattro colonne a forma anulare. Quando la macchina è spenta, si presenta in silenzio. L'obiettivo era far dissolvere la struttura in una nuvola di vapore visibile anche da notevoli distanze. A tale scopo, la grande struttura è controllata da un computer che attiva ugelli che prelevano acqua dal lago e la trasformano in vapore. L'acqua diventa così il nuovo elemento esplorato digitalmente. L'esperienza passa da visiva a sensoriale quando il visitatore entra nel padiglione attraverso la passerella. La nuvola rende la percezione visiva sfocata e indistinta, suscitando un senso di disorientamento nel visitatore poiché non c'è nulla da vedere, evidenziando la nostra dipendenza dalla vista stessa. Intendono mettere in discussione i principi che da sempre hanno configurato la disciplina architettonica, che aveva lavorato sulla definizione delle coppie dialettiche  (dentro/fuori, chiuso-aperto).

Dopo aver esplorato questo libro, la nostra percezione dell'architettura non può più limitarsi a considerarla come una mera composizione di forme regolate da schemi funzionali. La progettazione dovrebbe invece originarsi da un'indagine approfondita delle reali problematiche, per poi esprimerle in chiave ironica, risolutiva o come dati di fatto. L'obiettivo è lasciare un'impronta indelebile su coloro che si avventureranno nell'opera. Il visitatore non è considerato un mero spettatore passivo, ma è invitato a interagire attivamente con l'opera stessa. Inoltre l'opera architettonica non deve essere più un mezzo a cui guardare attraverso ma deve diventare un mezzo a cui guardare.